Scritto da Nicola Cariello
L’invasione del Lazio e la nascita delle leggende
L’invasione del Lazio sostanzialmente durò un secolo, considerando che il primo assalto (contro
Centumcellae, presso l’odierna Civitavecchia) ebbe luogo nell’813 e la battaglia del Garigliano,
che inferse un duro e definitivo colpo alle forze saracene, si svolse nel 916: il momento più
odioso coincise (agosto 846) con l’attacco ed il saccheggio delle basiliche romane di San Pietro
e San Paolo fuori le mura.
In questo lasso di tempo i Saraceni o Agareni o Ismailiti (5), come pure erano detti, con
l’appoggio dei loro alleati italiani, oltre il proficuo commercio di schiavi, rivenduti nei Paesi
musulmani, dove la richiesta di mano d’opera servile era costantemente molto alta (6),
organizzavano spesso e volentieri spedizioni militari; muovendo dai loro accampamenti (i
cosiddetti ribāt erano dislocati anche nell’interno del Lazio) e seguendo di preferenza le vie
fluviali, i Saraceni attaccavano soprattutto le ricche abbazie, dove il bottino risultava
indubbiamente più consistente. Non se ne salvò nessuna: a volte i monaci armati si
difendevano accanitamente, come a Montecassino dove perì lo stesso abate Bertario
(856-883), altre volte, non potendo resistere a lungo, preferivano abbandonare i monasteri per
trasferirsi altrove, come nel caso di Farfa, che l’abate Pietro I lasciò nelle mani degli infedeli. La
badia venne poi distrutta da una banda di latrunculi, purtroppo italiani.
Le vicissitudini dell’epoca vennero descritte, a volte anche con dovizia di particolari, dalle
cronache coeve o di poco successive, per cui se ne può ricavare in generale un quadro storico
abbastanza chiaro. Liutprando di Cremona sintetizza efficacemente la situazione scrivendo che
“Nessuno da Occidente o da Settentrione poteva passare per andare a Roma a pregare sulle
tombe dei beatissimi apostoli, senza che fosse preso da costoro (i Saraceni) e lasciato libero
col pagamento di un forte riscatto. Sebbene infatti l’Italia fosse oppressa da molte stragi …
tuttavia da nessuna furia o peste era tormentata come dagli Africani” (7). In materia, inoltre,
estremamente interessante risulta l’epistolario di papa Giovanni VIII (872-882), fortunatamente
pervenutoci (8). Molte delle lettere di quel pontefice, concernenti appunto il problema saraceno,
sono dirette agli imperatori franchi per invocarne l’intervento militare. Da parte sua il papa aveva
intanto già armato una flottiglia di dromoni ed aveva racchiuso la zona della basilica di S. Paolo
entro una cinta muraria, creando una cittadella detta Giovannipoli (9). Significative, in
particolare, appaiono le note indirizzate alle autorità civili ed ecclesiastiche del sud per invitarle
a desistere dall’infame alleanza con i Saraceni, basata sul desiderio di un “turpe guadagno”. Ma
né le promesse di ricompense in denaro né le minacce di scomuniche riuscivano a sortire alcun
effetto.
Nella corrispondenza di Giovanni VIII, dove vengono descritte le paurose condizioni di vita della
campagna romana, si fa riferimento anche alla valle dell’Aniene. Occorre però a questo punto
osservare come le vicende accadute all’epoca delle invasioni saracene abbiano colpito in modo
straordinario la fantasia popolare, che ne ha tratto un complesso di leggende e tradizioni ed un
colorito folclore. Racconti popolari in prosa e in versi presero a circolare con tutta probabilità già
dai tempi della Prima Crociata, nell’XI secolo; da questi canti semplici prese il via la creazione
dei grandi poemi classici del XVI secolo, estrema fioritura del filone sorto sulla Chanson de
Roland ,
inneggiante alla bravura dei cavalieri cristiani rispetto ai musulmani. Questa letteratura è
interessante e perfino affascinante; bisogna tuttavia avvertire che qui si è verificata a volte una
curiosa contaminazione tra fantasia e realtà ovvero tra le leggende e la storia, per cui ancora al
giorno d’oggi vengono presentati come veritieri fatti assolutamente non documentati e non
documentabili. “Il medio evo – scrive lo storico Gabriele Pepe – è il più lussureggiante giardino
di falsi che la storia conosca” (10) e non si può non essere d’accordo. Merita qui di essere
ricordato il caso dell’abate Giuseppe Vella (1740-1814), un erudito maltese cappellano di S.
Martino delle Scale (Palermo), il quale riuscì ad inventare di sana pianta dei testi arabi
riguardanti il periodo del dominio musulmano in Sicilia. L’arcivescovo di Eraclea, Alfonso Airoldi
(1729-1817), in buona fede fece pubblicare quei pretesi codici arabi in una opera monumentale
( Codice
diplomatico di Sicilia
sotto il governo degli Arabi
, 1789-1792), che tuttavia in seguito rinnegò in quanto l’orientalista tedesco Joseph Hager
(1757-1819) verificò di persona che si era trattato di una grossolana impostura. Da notare che il
Vella, nelle sue falsificazioni, riportò anche un fantasioso scambio di corrispondenza tra i papi
succeduti a Giovanni VIII, Marino I (882-884), Adriano III (884-885) e Stefano V (885-891) con
l’emiro di Sicilia al-Hasan ben al-Abbas (882-887). In tali lettere, che avrebbero avuto ad
oggetto il riscatto di prigionieri cristiani, si possono leggere espressioni quali: “Lu papa Marino
servus di omni li servi di lu Maniu Deu, te saluta multu, e te diko, Maniu Amir di Sicilia Alasan,
filiu di Alabbas, ki abeo kapitatu la tua littera signata kun la giurnata dilli quindici di lu mense
Aprili oktocento oktanta tre …” e così via. Lo straordinario falso settecentesco, tra l’altro, colpì la
fantasia dello scrittore siciliano Leonardo Sciascia, che vi costruì un romanzo (11). Nonostante
tutto ciò – questo è ancora più straordinario – perfino in tempi recenti alcuni storici continuano a
citare le carte contenute nel suddetto Codice diplomatico attribuendo loro il valore di documenti
autentici (12). È da osservare, inoltre, che non di rado le falsificazioni storiche vengono create
ad arte per scopi ben precisi. Così la lunga stagione della poesia cavalleresca in funzione
antimusulmana ben si adattava a giustificare le operazioni militari imposte dalle necessità
commerciali delle repubbliche marinare; così il Vella inventò delle fonti antiche a sostegno della
monarchia assoluta dei Borbone in un periodo in cui l’assolutismo in Europa cominciava a
perdere il consenso generale (13).
Tutto ciò premesso si può esaminare la lettera, datata 10 febbraio 877, indirizzata da papa
Giovanni VIII all’imperatore Carlo il Calvo per lamentare le angustie della Santa Sede e
chiedere un soccorso immediato. Non era la prima né sarebbe stata l’ultima volta: a settembre
dell’anno precedente si era rivolto al conte Bosone, cognato dell’imperatore, per ricordargli che
stava ancora aspettando “manum auxilii .. contra nefandos Sarracenos”, un aiuto contro i
tremendi Saraceni, che si erano moltiplicati come locuste, per cui il territorio abitato si era
ridotto “ in solitudinem et
in cubilia bestiar
um ” in
deserto e rifugio di animali !(14) Ora, rivolgendosi direttamente all’imperatore, dopo aver
stigmatizzato il comportamento dei duchi di Spoleto e di Camerino, i quali, invece di correre in
aiuto della popolazione dello Stato di San Pietro, razziavano e devastavano peggio dei
Saraceni: “
verum etiam quicquid residuum est a paganis impretermisse subtrahunt
” (ci tolgono pure quello che hanno lasciato i Saraceni), descriveva con accenti drammatici la
situazione della campagna romana. Queste le sue parole:
“ Tota Campania ab ipsis Deo odibilibus Saracenis funditus devastata iam fluvium, qui a
Tiburtina urbe Romam decurrit, furtim transeunt et tam Sabinos quam sibi adiacentia loca
predantur. Sanctorum quoque basilicas et altaria destruxerunt, sacerdotes et sanctimoniales,
alios quidem captivos duxerunt, alios autem variis mortibus necaverunt et omnem Christi
sanguine redemptum populum in circuitu deleverunt. Et quid dicam, aut quid loquar? Cum
pervenerit gladius usque ad animam et sanguis omnium de terra clamet ad Deum. Ergo,
precellentissime cesar, iamiam nostre calamitati succurrite, iam populi nostri miserias relevate,
iam vestre potentie porrigite et hanc terram … liberate, ne, si perdita fuerit, et vestrum vilescat
imperium, et tote Christianitati nascatur
dispendium
“Tutta la campagna romana viene devastata da cima a fondo da questi Saraceni invisi pure a
Dio; ormai attraversano di nascosto il fiume che scorre da Tivoli verso Roma e depredano sia la
Sabina che le località adiacenti. Distruggono basiliche e altari, catturano preti e monache,
portandone via alcuni prigionieri e uccidendone altri in vari modi, annientando dappertutto il
popolo redento dal sangue di Cristo. Ma che posso ancora dire, di che parlare? La spada è
penetrata fin nell’anima e tutto il sangue versato in terra invoca Iddio. Perciò, eccellenza
imperiale, soccorreteci nelle nostre disgrazie, sollevate il nostro popolo dalle sue miserie,
aiutateci con la vostra potenza e liberate questa terra perché se essa andasse perduta ne
verrebbe sminuito anche il vostro Impero e ne soffrirebbe tutta la cristianità”.
Per quanto si voglia ritenere che nell’enfasi oratoria il pontefice abbia dipinto a tinte troppo
fosche la situazione del territorio di San Pietro, paventandone la fine imminente, è pur vero che
bande di Saraceni, in combutta con elementi locali, scorrazzavano più o meno apertamente al
di qua e al di là dell’Aniene. Risulta che non solo in Sabina avessero fissato dei ribāt (15), ma
un po’ in tutto il Lazio. Per quel che concerne specificamente la valle dell’Aniene, pertanto,
indubbiamente i predoni a caccia di schiavi da rivendere sui mercati meridionali non dovevano
avere difficoltà a navigare lungo il fiume, risalendone la corrente oltre Tivoli. È necessario, però,
anche aggiungere che – stando alle stesse dichiarazioni del pontefice – il territorio circostante
Roma era ridotto ad un deserto. È più che naturale che gli abitanti, privi di difesa contro le
incursioni dei mercanti di schiavi, cercassero scampo in località più munite. I villaggi sorti lungo
la via Valeria o sulle colline che costeggiano l’Aniene, pertanto, dovevano essere ormai
abbandonati; resistevano le grandi abbazie ed i monasteri fortificati, in grado di opporre una
qualche resistenza. In genere essi disponevano di una loro milizia e spesso gli stessi monaci
assumevano, quando necessario, il ruolo di difensori armati. I Saraceni rivolsero, quindi, la loro
attenzione all’abbazia sublacense, che ne subì le tragiche conseguenze. Il
Chronicon
(16) ricorda che il settimo abate di Subiaco, Leone, chiese a papa Nicolò I (858-867) che
fossero rinnovati i privilegi scritti accordati all’abbazia e bruciati dai Saraceni: il pontefice, con
suo decreto, confermò tutti i privilegi concessi dai suoi predecessori o in altro modo acquisiti
dall’abbazia. Il monastero, infatti, era stato assalito e distrutto ai tempi di papa Gregorio IV
(827-844), secondo quanto si legge nella stessa Cronaca (17).
Più arduo risulta sostenere seriamente, in mancanza di documentazione, alcune tesi relative
alla presenza dei Saraceni in altre località della valle dell’Aniene, come Saracinesco o Vicovaro,
in quanto in tali casi sembrerebbe piuttosto trattarsi di leggende fiorite in tempi successivi senza
alcun fondamento storico. Per quanto riguarda Saracinesco, ad esempio, del quale, per
l’assonanza del nome, si è detto e ripetuto essere stato fondato da un gruppo di Saraceni
successivamente convertitisi al cristianesimo, si può osservare che il nome di Rocca
Sarraciniscum
appare nel 1051 in un’iscrizione sulla fronte della chiesa di Santa Scolastica, dove sono elencati
i possedimenti di Subiaco ai tempi dell’abate Umberto (1051-1060). Precedentemente era già
citato nel Regesto Sublacense (anno 1005) semplicemente come
volubrum qui vocatur
Sarracenescum
, vale a dire come “cascata d’acqua chiamata Saracinesca”. Il che lascia intendere che in quella
località si sia andato formando un abitato entro la prima metà dell’XI secolo, fenomeno del resto
comune a buona parte del Lazio e noto come “incastellamento”. Pare accettabile, quindi,
l’ipotesi avanzata dal Toubert (18) che si tratti di un toponimo, non infrequente nei paesi latini,
indicante una sommità, vale a dire serra (=sarra).
Anche per ciò che concerne alcuni cognomi locali, che si vorrebbero derivati dall’arabo,
sembra piuttosto che essi riecheggino i nomi di personaggi fantastici che appaiono nella
letteratura cavalleresca dopo il XIII secolo (19).
Ancor più evidentemente privo di fondamento storico pare il racconto della battaglia che si
sarebbe svolta nei pressi del convento di San Cosimato in quel di Vicovaro (20). Nel
combattimento le orde saracene sarebbero state annientate nell’anno 916 dalle truppe cristiane
guidate da … Carlo Magno! Pur a prescindere dal fatto che quell’imperatore era già defunto
nell’ 814, non esiste alcun documento che possa suffragare tale tesi. È vero, invece, che
all’epoca si verificarono diversi scontri (a Trebula Mutuesca, nella Valle del Baccano e infine al
Garigliano) che inflissero durissimi colpi alle bande saracene, segnando la fine della loro
tracotanza. Nel caso della fantomatica battaglia di San Cosimato si tratta, però, soltanto di un
racconto leggendario acriticamente accolto o del semplice frutto della fantasia di uno scrittore
locale del XVI secolo riferito come fatto storico (21).
Il periodo delle incursioni saracene destò, in sostanza, una tale impressione nella memoria
collettiva, da dar vita a una specie di storia parallela, fatta di episodi favolosi, tramandati fino ai
giorni nostri e scambiati per testimonianze reali. In conclusione, nella valle dell’Aniene, come
d’altro canto in molte altre località del Mediterraneo, l’invasione musulmana creò un impatto
violento. Occorre forse rammentare ancora una volta che essa fu favorita dalle condizioni
politiche dell’epoca e soprattutto dalla struttura economica di un sistema di tipo schiavistico. I
mercanti, che trafficavano con prìncipi sia cristiani sia musulmani, affidavano il “lavoro sporco” a
mercenari e predoni che provvedevano a fornire la “materia prima”. La sconfitta del Garigliano
nel 916 segnò la fine progressiva delle incursioni saracene e di un periodo storico: il X secolo
costituisce, infatti, una sorta di spartiacque nella storia delle nostre contrade che cominciarono
a poco a poco a ripopolarsi. Si tratta del fenomeno socioeconomico noto come
“incastellamento”, per cui attorno alle rocche ed ai castelli signorili, sorti in cima ai colli che
circondano la valle dell’Aniene, cominciavano a costruirsi le abitazioni dei lavoratori racchiuse
entro una cinta muraria eretta a scopo difensivo. Si può affermare che l’atto di nascita di
pressocché tutti gli attuali Comuni risalga appunto a quel periodo (X-XI secolo). La situazione
politica stava subendo profondi mutamenti; nasceva una classe sociale formata di ricchissimi
proprietari terrieri che incrementavano le loro fortune a spese l’uno dell’altro o che contestavano
alla opulenta abbazia di Subiaco il possesso di terre e castelli in una lotta senza quartiere. Il
tempo della grande paura era passato, ma le vicende umane continuavano ad essere
improntate a quella storia che sempre si ripete, secondo il triste monito dell’Ecclesiaste: “Pecun
iae oboediunt omnia