Il Massacro degli Equi

Tratto dal libro di Tito Livio   “Ab urbe condita IX, 45”

Durante il consolato di Publio Sulpicio Saverrione e di Publio Sempronio Sofro, i Sanniti – nel desiderio di porre fine alla guerra o di ottenere una tregua – inviarono a Roma ambasciatori per discutere la pace. Alle loro suppliche venne replicato che, se i Sanniti non avessero di frequente richiesto la pace continuando in realta’ a preparare la guerra, si sarebbe potuto stipulare un trattato di pace con una semplice discussione tra le due parti in causa. Ma ora che le parole a tale riguardo si erano dimostrate vane, era necessario starsene ai fatti. Il console Publio Sempronio si sarebbe recato di l? a poco nel Sannio con un esercito, e non gli sarebbe certo potuto sfuggire che intenzioni avessero i Sanniti, se bellicose o pacifiche. Chiarito ogni aspetto, avrebbe riferito al senato. Che quindi i delegati seguissero il console al suo rientro dal Sannio. Quell’anno, poiche’ un esercito romano che l’aveva percorso in lungo e in largo aveva trovato il Sannio in condizioni pacifiche ed era stato generosamente rifornito dalle genti del posto, ai Sanniti venne di nuovo concesso il trattato di pace di una volta. Le armi di Roma si rivolsero poi contro gli Equi, antichi nemici, che per anni non avevano dato fastidi, sotto le apparenze di una pace di cui non ci si poteva fidare, ma che prima della disfatta inflitta agli Ernici avevano con questi ripetutamente inviato aiuti ai Sanniti, e che dopo la sottomissione degli Ernici erano passati quasi in massa dalla parte del nemico senza che venisse nascosta l’ufficialita’ di tale decisione. E quando poi – conclusa a Roma la pace coi Sanniti – erano arrivati i feziali a chiedere soddisfazione, gli Equi avevano sostenuto trattarsi di una manovra fatta dai Romani per convincerli ad accettare la cittadinanza romana forzandoli con lo spauracchio di una guerra. Ma quanto la cosa fosse desiderabile, erano stati loro Ernici a mostrarlo, scegliendo, quando ne venne data l’opportunita’, le proprie leggi in luogo della cittadinanza romana. Quanti invece non avevano avuto l’opportunita’ di scegliere la soluzione preferita avevano dovuto loro malgrado accettare la cittadinanza romana come un castigo. Siccome i discorsi che si tenevano nelle assemblee erano in genere di questo tenore, il popolo romano ordin? di fare guerra agli Equi. E i due consoli, partiti alla volta del nuovo conflitto, si attestarono a quattro miglia dal campo nemico. L’esercito degli Equi, che non combattevano pi? guerre per conto proprio da moltissimi anni, costituito com’era da truppe raccogliticce, prive di comandanti e di precise autorita’ interne, era in grave affanno. E mentre alcuni proponevano di uscire allo scoperto e altri di difendere l’accampamento, la maggior parte fremeva al pensiero delle campagne devastate e delle citta’ distrutte, essendo rimaste prive di guarnigioni armate. E cosi’, quando tra le molte proposte se ne sent? una che lasciava da parte la causa comune invitando i singoli a preoccuparsi del proprio interesse particolare (e cioe’ a uscire, col calar della notte, dall’accampamento e portar via ogni cosa, rientrando nelle rispettive citt? per mettersi al riparo delle mura), venne accolta da un grande applauso collettivo. Quando i nemici si erano gia’ sparsi per le campagne, all’alba i Romani si schierarono in ordine di battaglia. Ma dato che nessuno si faceva avanti, si diressero subito verso l’accampamento nemico. Quando videro che l? non c’erano sentinelle alle porte n? gente di guardia dietro la trincea, e che non si sentiva il brusio tipico degli accampamenti, preoccupati da quel silenzio anomalo si fermarono per paura di finire in un’imboscata. Scavalcata poi la trincea e avendo trovato tutto deserto, cercarono di mettersi sulle tracce dei nemici. Ma le orme che portavano in tutte le direzioni (come sempre succede nel corso delle ritirate inconsulte), in un primo tempo sviarono i Romani. Quando poi vennero a sapere da informatori le vere intenzioni dei nemici, cominciarono ad attaccare le citt? una dopo l’altra. In cinquanta giorni ne espugnarono trentuno fortificate, la maggior parte delle quali venne rasa al suolo e data alle fiamme, mentre quasi l’intera etnia degli Equi ando’ distrutta. Per il successo sugli Equi venne celebrato il trionfo. Il loro annientamento servi’ da esempio ai Marrucini, ai Marsi, ai Peligni e ai Frentani, che inviarono a Roma delegati per chiedere pace e amicizia. E a questi popoli che ne facevano richiesta venne concesso un trattato di alleanza.